• Nascere critico d’arte: L’intervista di Fattitaliani.it

    On: 9 Luglio 2019
    In: News
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    Pasquale Lettieri è Critico d’Arte, ma anche Poeta, Biografo e Giornalista.
    Danno il via alle sue attività le frequentazioni con il Poeta visivo Camillo Capolongo prima e successivamente con il curatore e gallerista romano Ermenegildo Frioni.
    Inizia così un percorso artistico culturale, professionale veramente consistente, la sua prolifica attività nel campo della ricerca artistica contemporanea, curando numerosissime mostre e rassegne dedicate ai nomi più prestigiosi dell’Arte contemporanea. E’ autore di numerosi cataloghi e libri d’arte, Docente, Accademico, Direttore artistico di Gallerie d’Arte, scrive su quotidiani e mensili di provata valenza artistica, curatore di un’ingente quantità di Mostre, Autore di volumi e cataloghi preziosi per la competenza e la ricerca storica che ne sono alla base.

    Chi sia, quindi il Prof. Lettieri per gli addetti ai lavori è ormai storia, noi invece vogliamo presentarlo al grande pubblico, facendolo conoscere anche umanamente ai giovani, a chi non è un frequentatore del campo artistico.
    D. Prof. Come vive un Critico d’Arte come Lei la consapevolezza di appartenere ad una terra che contiene il 70% dell’Arte mondiale ed è la culla di tutta la Cultura neoclassica?
    Si sente il peso di una grande responsabilità, ma anche la felicità dell’orgoglio di essere italiani. La museografia, così come la museologia, sono diventate due scienze in sviluppo, che attirano sempre nuove attenzioni di giovani che sentono il bisogno di acquisire le conoscenze adatte per svolgere queste nuove professioni che a qualcuno sembrano antiche, ma che fino a poco tempo fa si acquisivano con un artigianale apprendistato, che per anni ha dato buoni risultati, ma ora mostra tutta la sua corda. Tanto è vero che si avvertono tutte le carenze che abbiamo posto a premessa di questo ragionamento. Carenze che rischiano di rallentare lo sviluppo di questo comparto che, con l’aumentare del tempo libero e dei consumi culturali, richiederà tanti operatori ai quali non si dovrà chiedere una minore scientificità di quella che si chiede ai ricercatori delle nanotecnologie. Non bisogna pensare che nelle cose dell’arte deve valere l’ingegno, l’improvvisazione e basta, perché è sempre più necessario acquisire conoscenze organiche e mettere in campo prassi che già all’estero, specie negli Usa, sono già in atto e da noi, molto meno. Porre al centro del dibattito questa questione significa voler dare al mondo dell’arte, un futuro certo in cui le discontinuità e le originalità siano dovute a personalità e psicologia, non a casualità e improvvisazione. Le università, le accademie, ma anche le stesse istituzioni museali e storico archeologiche si devono porre il problema in termini organici, utilizzando anche l’esperienza dei pionieri dei Renato Barilli, degli Achille Bonito Oliva, dei Germano Celant, dei Gillo Dorfles, dei Philippe Daverio, artefici di una grande stagione, irripetibile, indipendentemente dalle loro diversità e dall’essere storici o “contemporaneisti”. Mi sembra necessario non lasciarsi sfuggire l’occasione d’oro d’avere avuto una squadra di critici che è equivalente a ciò che sono stati i Valentino, Versace, Ferrè, Armani, Missoni, Balestra, Molaro nel campo della moda. Un momento in cui la storia produce, in maniera rivoluzionaria, dei protagonisti che tracciano una strada che prima non c’era, che fondano stili e modelli di vita, ma difficilmente hanno eredi diretti, anche perché sono dei solisti che creano le regole con il loro comportamento ma non le tollerano, per cui, affinché non si disperda un patrimonio è necessario che si moltiplichino le offerte che ad oggi sono molto limitate.
    D. Ci spiega come e quale approccio bisogna avere per carpire il significato di un’opera e non rimanere alla sua apparenza?
    Dinamica e meditazione sono due alternative di lettura per i linguaggi creativi, pittorici, plastici, che oggi sono sempre più contaminati, mescolati, con la peculiarità tecnologica che impregna tutto l’essere e l’apparire, anche quello che, nell’immediatezza, sembra più legato alla tradizione e alla storia, ma ricordandoci sempre che nell’antico, molto mitizzato, le statue, i templi e le case, tutto era dipinto proprio perché il crinale del cambiamento continuo, che corrisponde all’etimologia della modernità avanzata, liquida, obbligato a scommettere sull’originalità.
    In sostanza nessuno può “tradire” il proprio tempo, sia quando vuole tentare la fuga in avanti, che quando si sente orfano del passato e vuole ripercorrerlo o impiantare in esso, perché c’è oltre alla consapevolezza, un trasudamento molecolare che gioca una dialettica di movimento e di stasi in un ondeggiare continuo, per quanto asimmetrico, che corrisponde ad una sperimentazione e ad una riflessione, che è linguistica in senso teorico, complessivo, pronta a specificarsi nei molteplici rivoli della fenomenica che corrisponde ai nostri sensi alle espressioni del desiderio, nelle emozioni, che si fondano sulla memoria e ad essa tornano, dopo i flussi del presente, dopo aver lasciato tracce che tocca ai visionari astrarre dal nulla, ai deliranti innalzarle a pensiero.
    D. Cos’è per Lei la Bellezza?
    Il concetto del bello è fortemente generico, penosamente vacuo. Diciamo bello quello che piace agli occhi, quello che osserviamo con piacere. Ma il piacere offerto dalla natura è di specie diversa dal godimento artistico. Quel che piace rappresentato dall’artista può spiacere in natura ed essere persino insopportabile. Poiché c’è un abisso fra bellezza naturale e pregio artistico, noi cerchiamo di evitare il termine “bello” nel giudizio sull’arte. Ma sarebbe un errore espellere senz’altro dal regno dell’arte il bello naturale, quindi la figura sanamente bella, la grazia del movimento, una corporatura regolare, il fascino. I rapporti fra bellezza naturale e valore artistico sono intricati.
    Anzitutto il nostro giudizio sulla bellezza in natura dipende dalle nostre esperienze artistiche. Proprio dagli artisti abbiamo imparato a godere la bellezza naturale.
    Le forme, i colori, i movimenti che ci rendono felici nella vita, noi non cerchiamo affatto di ritrovarli nel quadro. Il bello naturale non è condizione indispensabile per la creazione artistica, ma serve all’artista come un mezzo. In arte esso è simbolo di nobile, alto sentire, di purezza spirituale, d’innocenza e di santità.
    D. Per fare comunicazione culturale sui giornali, in TV e, ovviamente, a scuola occorre sempre il confronto con il passato o il dominio della Rete ha mutato o almeno condizionato il modo di fare critica?
    Non bisogna dimenticare mai che i linguaggi artistici costituiscono un elemento essenziale dell’immaginario umano, capace di connotare identità, come le differenze, rendendo dinamiche le civilizzazioni, dando ad esse le strumentazioni per affermare la creatività, lo sbandamento,
    la fascinazione; perché altrimenti non si comprenderebbe il suo espandersi, che è da tutti considerato, un indiscutibile fattore oggettivo, mentre, ancora in tutta la prima parte del Novecento, in preda delle ideologie rivoluzionarie e assolutistiche, molti si chiedevano, con maiuscoli punti interrogativi, se l’arte fosse necessaria, se l’arte avesse avuto un futuro. I nuovi media hanno consentito una crescita in orizzontale, oltre che in verticale, dell’interesse poetico e critico, oltre che di quello di mercato, che rimuove questi interrogativi, mentre amplia la portata di tutte le questioni filosofiche, sociologiche, linguistiche, che all’arte e alle sue molteplici espressioni, fanno riferimento.
    D. I trentenni e i quarantenni di oggi vivono una grave emergenza storica che si basa su una disoccupazione intellettuale già, da qualcuno, prevista fin dagli anni settanta. Quali gli errori della Scuola, della Formazione, della docenza universitaria? Dice Oscar Wilde: in un secolo brutto e insensato, le arti cercano i modelli non nella vita, ma in opere precedenti, alle quali fu dato valore.
    Cosa fare, secondo lei, per non trascinarsi questo stato di cose nelle generazioni future?
    Nella grande discussione sulla disoccupazione giovanile, specie di carattere intellettuale, spesso sprovvista di laurea, non è mai stata al centro del dibattito la questione delle nuove professioni legate alla cultura, alla gestione di imprese culturali, in tutti i settori, soprattutto in quelli museali, galleristici espositivi, che si moltiplica sempre più e non hanno personale adatto, non potendo quindi, portar avanti i programmi di espansione o dovendo accomodare con personale improvvisato. Tanto malessere, in tutti questi luoghi è dovuto spesso all’improvvisazione, al dilettantismo, che poi si traduce in cattiva selezione delle opere, in modesti cataloghi di basso tenore scientifico, in allestimenti carenti e in apparati illuminotecnici che spesso sono fatti per rendere difficoltosa la visione e sfregiare seppure metaforicamente, le opere.
    La stagione delle mostre, in Italia, ormai dura da anni, senza interruzione e il fenomeno non accenna a placarsi, ma questo pone con forza il problema della formazione dei critici, dei conservatori, dei curatori, degli addetti stampa e alle pubbliche relazioni, i guardiani, gli accompagnatori di comitive. Bisogna studiare in modo nuovo in collegamento tra centri universitari e musei, gallerie, luoghi espositivi, per evitare i rischi di teoricismo, che rendono inutile tanta conoscenza e quelli di tecnicismo che reputano tutto ovviabile con l’esperienza. Serve lo studio teorico e l’attività di tirocinio, in modo da connettere subito l’acquisizione metodologica astratta e la concretezza del fare e del fare bene.
    D. Artisti, Galleristi, Istituzioni. Monitorando questi tre fattori, qual è lo stato di salute dell’arte contemporanea?
    Il sistema dell’arte sta vivendo una nuova giovinezza, da tempo, conquistando sempre nuovi ceti sociali, che vengono attratti dall’arte, per quello speciale status simbol che conferisce, per quella trasformazione qualitativa che dà agli ambienti in cui viene collocata. Niente è in grado di soddisfare il desiderio di cose bellezza ambientale, come l’arte, specie quando è il frutto di una conquista individuale, in un luogo che è di conoscenza e di acquisizione, come dire di metafisica e di fisica. L’opera di pittura, di scultura, di disegno, di grafica, nella vendita all’asta, si misura, non solo con una cerchia di affezionati e di conoscitori, ma con un vasto pubblico, che spesso la incontra per la prima volta, proprio in questo luogo, spesso con delle folgorazioni e delle impennate di valore, che fanno notizia; nascono in sostanza amori eterni ed infiniti, ma anche possibilità di crollo, anche se, veramente, questo accade molto di rado. Puntare su questa forma di mercato dell’arte, che è ormai stabile nell’affiancare quella tradizionale dei mercanti en chambre o dei galleristi o quelle più recenti, come quella che avviene in trasmissioni televisive, è un fatto di fiducia nei confronti dell’agorà cittadina per entrare in confronto con l’habitus della ricchezza storica, dell’arte antica e moderna; ribadendo che essa non è in alternativa agli altri canali commerciali esistenti, ma si propone in azione sinergica di integrazione, in cui si preveda che in più, in tanti, si possa lavorare insieme per allargare il panorama dell’offerta d’arte e ampliare l’ambito dell’offerta e quello della richiesta. Così consolidando, in tutto, il panorama nazionale, un segmento del rapporto sociale con l’arte, nella considerazione che la sua fase di mercificazione non finisce per esaurirla, ma nel verificarne la corporeità in vista di una più sofisticata conservazione tra i beni dello spirito, perché non dobbiamo mai dimenticare che l’arte ha un suo momento mercantile, seppure alto e speciale, ma rimane sempre una delle più alte invenzioni del genio umano e rappresenta la più alta espressione di una civiltà. In sostanza, si può ribadire che ricchezza e varietà dei canali di proposta di mercato, fanno si che esso sia, sempre più, un segnale di strutturalità della vita economica e culturale, un segnale di modernità profondamente radicata nella tradizione e proiettata nel futuro.
    D. La bellezza salverà il mondo, dice Dostoevskij, dobbiamo crederci o è ormai una frase dell’immaginario comune?
    L’arte e gli artisti sono una categoria postmoderna per eccellenza, forti e inguaribili assertori di una unione sacra tra teoria e prassi, tra concettualità e tecnica, continui fondatori e rifondatori della loro genealogia di nomadi ed erranti, vocati a creare bellezza e a dare luce ai grandi spazi e ai segreti luoghi della vita; con essi si devono misurare sociologi e urbanisti, architetti e paesaggisti, per fare in modo che il nostro destino non sia quello dei tristi custodi di un passato grande di cui s’è persa la chiave, ma di protagonisti pronti a segnare il proprio passaggio, con forme durature di monumenti del nostro tempo. Come sempre si confrontano i laudatores temporis acti, i catastrofisti, gli utopisti, i visionari, ma noi possiamo aspirare al più alto dei destini, quello di contribuire alla trasformazione molecolare di noi stessi e della realtà circostante, senza lasciarci esaltare dai successi e senza farci atterrire dai degradi: hic rodus, hic salta.
    D. Cos’è la Poesia per lei?
    La poesia è diventata un’ermeneutica dell’impossibile, in quanto non esiste più una regola d’arte che va interpretata e compresa, ma un trascinamento che non porta da nessuna parte, perché l’emozione non è programmabile e neanche decodificabile, se non in via sintomatica, frammentaria, senza più nulla di sistematico, proprio per il fatto che si è esaurita la poetica come pensiero compatto, per cui il post industrialismo si diffonde esplosivamente dappertutto, con un ritorno all’individuale parcellizzato, alienato, proprio nel momento in cui alla divisione capitalistica del lavoro, fa sì che nessuno abbia una visione d’insieme, capace di essere in qualche modo autosufficiente, bersagliando l’individuo di ogni attacco, fino a farlo regredire in individualismo solipsistico, che dal narcisistico procede verso l’autismo, anche se per fortuna continuano a proliferare gli emarginati che seguendo le tracce di Solgenitsin, di Sakarow, di Siniavski, di Daniel, le indicazioni intellettuali di imprevedibili poeti come Pound e scrittori come Cioran, tutti lungo una direttiva di libertà, dove hanno incrociato le penne, anarcoidi come Pizzuto e Bataille e per finire in catalogabili, come Kurt Vonnegut, James G. Ballard, Charles Bukowski. Si fa per dire!
    D. L’amore rende più deboli o più forti?
    Eros è la macchina della vita, intorno ad esso e attaccato alle sue infinite trame, si svolge l’accedere delle ore e dei giorni, in una perenne lotta del desiderio, di soddisfarsi, sapendo, antropologicamente, che il suo gioco radicale, ontologico, sconfina con le pulsioni profonde, che appartengono all’istinto di conservazione e di repulsione, per tutto ciò che è suo apporto, disfacimento, dissipazione, perdita del , dell’es, del superio, della morte, insomma, che è la perdita di tutto, per cui eros vuol dire gioia e dolore, mescolati insieme, in estasi e tormento, eterni.
    Al suo corteo cui sono tutti, belli e brutti, giovani e vecchi per prendersi la propria parte di festa, la propria porzione di godimento, portandosi dietro l’epigrafe del proprio narciso, attaccata alle dionisiache corone di fiori carnosi, umorali, come un’insegna, che indica innamoramento, passione, delirio, dolore: perché il suo percorso è sempre ripido, in salita e si può precipitare in ogni momento, anche quando si sfiora il culmine, l’estasi di un attimo e s’incontra Sisifo, che non si ferma mai che sale, sale, ma poi scende, scende.
    D. Da cosa ci salva la Poesia?
    La poesia, erede, nel suo grande contenitore indicibile ed ineffabile, delle misure della bellezza, della libertà espressionistica, dell’emozione, della gestualità, del nomadismo, della sperimentazione, della teatralità della scena, del segreto di un laboratorio sapienziale e facturale, del grande teatro del mondo e della sua immensa volta celeste, conturbante aura fantastica e cappa insostenibile, caratterizza, rizomaticamente ed atmosfericamente il nostro tempo.
    La poesia si configura come un grande contenitore, informe, elastico, pronto ad assumere la forma di tutto quello che contiene dentro, cambiando di continuo il suo modo di apparire, la sua transeunte morfologia, fatta di tutte le imperfezioni e le titubanze che vengono a scontrarsi, quando tutto è stasi e sembra movimento, quando tutto è movimento e sembra stasi.
    D. L’amore è la risposta, ma mentre aspettate la risposta il sesso può suggerire delle ottime domande. (Woody Allen). In che ordine mette le due cose Lei?
    Nel lungo tempo dell’oggi, che è il rovesciamento dell’eterno presente, tutto quanto può esistere, spianando le montagne e riducendo le maree, proprio, perché è in atto una grande pioggia chimica, di media a cui nessuno può sottrarsi, intrusiva, implacabile, a cui è necessario rispondere, raddrizzando i tempi e i luoghi, della riflessione, della meditazione, nell’ascolto dei suoni, nella modulazione, delle parole, nella calibratura dei gesti, facendosi altro, riuscendo ad ascoltare il silenzio e vedere il nulla, come se fosse in atto un’apocalisse, l’avvento dell’aleph.
    Per questo, diventa fondamentale il momento della libertà, della libera adesione alla propria emotività sensuale e pornografica, salvifica e dannata, che può anche essere sincronica, calibrata con quanto gli accade tutto intorno, vissuta senza arroganza e senza spirito di sopraffazione, in cui il compito del maestro, vicino e lontano, non è quello di portare ad unità la molteplicità, ma di conservarla, in quanto tale, come una ricchezza che è tale, in quanto tale e non in quanto materialeda fondere insieme, ma per la fluidità del genio che per fortuna è sempre incombente
    D. Tra le tante cose che fa, in quale si ravvisa meglio?
    Nella contemplazione
    D. Un’ultima domanda al Prof. Lettieri che riguarda la Donna. Oggi è sopraffatta dalla violenza, l’Arte può contribuire ad abbattere questo oscurantismo che pensavamo di avere alle spalle?
    Lo sguardo lungo e inesorabile, che guarda all’eterno femminile, come geneticamente culturale e complessità espressiva, in senso fisico, assolutamente fisico, ma storico, assolutamente storico, dal punto di vista dell’emozionalità fantastica e della rappresentazione visiva, specialmente in quest’ultima fase della modernità, che lo ha fatto diventare testimonial di tutto, ma proprio di tutto, a causa (o grazie) all’emozionalità che, investendo le molecole più recondite dell’io e del noi, condiziona ogni atteggiamento nei confronti dell’altro. La donna, specchio estetico dell’umanità, è soggetto-oggetto, nel senso che vive all’interno dell’opera, come in un secretum, mostrando vera spontaneità che è quella dell’essere con sé stessi, del piacersi, del guardarsi, dell’immaginarsi, ma anche la spettacolarità del piacere, del guardare, dell’immaginare, in una dialettica, che è della natura, che è della cultura, in un limpido, in un torbido, di una trama combinatoria che prevede scampo, che prevede riparo, facendo parlare il respiro, il calore, l’assopimento, come regno, come voluttà.
    Gentile Professore grazie per la sua disponibilità che ci ha permesso questa piacevole conversazione e ci lasciamo con poche parole che ci esortano a fare solo ciò che possiamo, a tutela della pura e disinteressata bellezza: L’arte è una missione, se non si è chiamati è meglio non farla (Giò Pomodoro).
    Caterina Guttadauro La Brasca
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  • Vittorio Mantovani presenta il suo libro, Angeli Scalzi

    On: 15 Novembre 2017
    In: Eventi, News
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    Mantovani nelle sue poesie coglie l’attimo fuggente e le tragedie dell’io, che avvengono mentre la sua penna riga un foglio e la sua tastiera batte una b oppure una a, oltre la soglia della percezione psicologica, in un vero schiacciamento, che è dovuto all’eccesso di immagini, di suoni, di eventi, che hanno cancellato la nozione di silenzio e di luce e quindi anche quella di rumore e di tenebre, tanto, tutto è diventato endemico, e il concetto di norma non esiste più, se non nei vocabolari etimologici, perché in effetti tutto è sconfinato, oltre il segno della bellezza, che è sempre un confine, determinando la non tracciabilità del sublime, che è automatismo e alterità. Mantovani sorprende le capacità nomenclari della parola, come accidente strutturale e significativo, che dello stesso linguaggio come griglia a priori, soggetta a mutazioni per crescita e decrescita, in un farsi e in un disfarsi, continuo, che è fisiologico, ma che oggi comincia ad apparire come palesemente inadeguato. E se questo è vero, in termini epistemologici ed ermeneutici vuol dire che questo aspetto del linguaggio di Mantovani, nella sua varietà denotativa e connotativa, che comprende la verbalità e la scritturalità, l’inventività e la sperimentalià e tutte le crescenze dovute all’universo aperto delle medialità, materiali e immateriali, se non affrontato nella sua multilateralità e in una frequentazione continua, che ne permetta l’accompagnamento in tutte le sue fasi riformistiche e rivoluzionarie, sia nelle evoluzioni pacifiche, che negli smottamenti improvvisi, rischia di diventare il problema dei problemi, perché mette in dubbio ogni fondamento della realtà e non in via idealistica, per induzione nel pensiero filosofico, quanto per caduta nell’alienazione, che è un eccesso di materialità, di consumo, di accumulo, di scorie e di cose che non devono durare più dell’attimo mentale, perché così vuole il capitalismo planetario, votato a produrre, produrre, senza sosta. Nelle poesie di Vittorio Mantovani ritroviamo il sublime, erede, nel suo grande contenitore indicibile ed ineffabile, delle misure della bellezza, della libertà espressionistica, dell’emozione, della gestualità, del nomadismo, della sperimentazione, della teatralità della scena, del segreto di un laboratorio sapienziale e facturale, del grande teatro del mondo e della sua immensa volta celeste, conturbante aura fantastica e cappa insostenibile, che caratterizza, rizomaticamente ed atmosfericamente il nostro tempo. Una poesia che si configura come un grande contenitore, informe, elastico, pronto ad assumere la forma di tutto quello che contiene dentro, cambiando di continuo il suo modo di apparire, la sua transeunte morfologia, fatta di tutte le imperfezioni e le titubanze che vengono a scontrarsi, quando tutto è stasi e sembra movimento, quando tutto è movimento e sembra stasi.

    Nei suoi versi tutto si svolge nel segno dell’imprevedibile, che cambia continuamente i linguaggi e il rapporto tra di loro. Gli eventi concreti, tangibili, un tramonto, il mare, una confessione, un fiore, uno sguardo, una sensazione, non sempre riescono ad avere una corrispondenza con quelli immaginari e con quelli verbali, perché hanno ritmi diversi. Quasi concetti utopistici, che non corrispondono a niente, oltre la fisica dei materiali o, specularmente, sperimentali, che necessariamente sono privi di nomenclatura, in quanto, imprevedibili, originali.

    Nella raccolta “Angeli scalzi” è contenuto tutto, anche la bellezza, come pura potenzialità, che si articola in molte stilistiche e  tipologie, che hanno in comune la forza debordante della ricerca, come dato della disseminazione, come effetto collaterale della smisuratezza, che richiede, di volta in volta, la concretezza dell’attualità, altrimenti resta confinata nel nulla.

    Nei momenti di accelerazione dei versi (che rappresentano la regola della modernità), tutto viene travolto, dalla continua mutazione, terminologica, iconica, formale, in una concezione sperimentale che non si può mai annullare, neanche nei momenti di ritorno all’ordine, di nuova linfa della tradizione e della concettualità, perché c’è una asistematicità, una fibrillazione, che in Mantovani è psicologia della fantasia e dei luoghi comuni, contaminazione tra individualità e agglomerazione di stati di memoria, di vita vissuta e di desideri, proiettati in ogni manifestazione non utilitaristica del sé.

    Si determinano, così, tanti e tanti, percorsi personali, costruiti sul pontile della libertà e della ricerca, nell’area di una centralità culturale, spirituale, che deve presiedere alla creazione della singolarità, dello spessore in cui ognuno misura se stesso, nell’invisibile dei segni, dei desideri, delle speranze, delle delusioni e del visibile, che vuole fuggire al nulla, apparire, essere.

    La persistenza della memoria per il poeta, fa da strato, da  comune riferimento, che non è solo linguaggio tecnico, ma un modo di esprimersi, fatto di confluenze e di alchimie, di desideri e di paure, di sogni e di ossessioni, che Vittorio Mantovani porta con sé, come bagaglio reale e virtuale, che mette a disposizione del nuovo e del diverso, combinandosi con le valenze disseminanti e affabulanti, della dimensione babelica del mondo.

     

    Fonte:one-magazine.it

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